Il rapporto tra cucina e cinema dà vita ad un universo davvero sterminato: libri, racconti, saggi, articoli, interviste e addirittura interi festival si sono spesi per mettere in relazione le due «arti» che più di tutte le altre sono popolari e vicine alla quotidianità degli italiani.
Sono davvero centinaia, nel nostro Paese, i film – tra essi alcune pietre miliari – nei quali le scene più significative si contestualizzano a tavola, nelle cucine, attorno alle pietanze più diverse.
Ci piace proporre qui,senza alcuna pretesa di esaustività, alcuni esempi di commedie italiane che raccontano come, nella storia del cinema, il cibo abbia assunto via via significati storicamente e culturalmente diversi, cambiando il suo immaginario assecondando il mutamento delle condizioni sociali.
Cominciamo dagli anni Cinquanta, ricordando Un americano a Roma (1954, regia di Steno), che restituisce con grande efficacia e spassosa ironia quanto il cibo nell’epoca del dopoguerra fosse a tutti gli effetti uno dei più importanti «status symbol», inteso come rivalsa e identificazione sociale.
Chi non ricorda il giovane Alberto Sordi con il cappello dal frontino all’americana che sfida il piatto di pasta evocando «Maccarone… m’hai provocato e io te distruggo, maccarone. Io me te magno!»?
Negli anni Settanta l’iconografia del cibo comincia a modificare la sua fisionomia: ne “La Grande Abbuffata” (1973) di Marco Ferreri – un cult dagli indimenticabili protagonisti – Noiret, Mastroianni, Tognazzi e Piccoli decidono di abbuffarsi fino alla morte per sfuggire ai loro problemi esistenziali: ma di una morte d’alto rango, con ricette prelibate e vini costosissimi.
Il focus, dunque, si sposta sull’individuo e il cibo diventa sfogo emotivo, compensatorio, psicologico, pur non venendo meno al proprio passaporto sociale.
Surreale e totalmente psicanalitico, invece, è il rapporto che il cibo assume nella filmografia di Nanni Moretti, autore provocatorio che ha addirittura intitolato la propria casa di produzione cinematografica ad una torta, la «Sacher Film»! La scena, ormai entrata nel mito, è quella dal film «Bianca» del 1983, dove lo stesso giovane Moretti, completamente svestito in cucina, intinge il cucchiaio in un barattolo di nutella gigantesco oltre all’altezza d’uomo.
Da questo ed altri episodi si comprende come, nella poetica del regista e attore romano, i dolci in particolare (e più in generale il cibo) siano una sorta di strumento di analisi interiore, un corpo da dare alle proprie ossessioni, un simbolo – tra il sarcasmo e il paradosso – dell’essenza della vita.
Questo excursus ci rammenta come a tutt’oggi chi lavora, produce e si rapporta al mondo del food non possa prescindere dal suo significato simbolico. Il cinema rappresenta sicuramente uno degli specchi più sinceri di esso e non è un caso che proprio la settima arte sia la più importante «antenata» della pubblicità. Oggi, sempre di più, il food e l’atto del mangiare rappresentano insieme lo status sociale del consumatore, ma anche – e più diffusamente – uno stile di vita: «Dimmi come mangi, e ti dirò chi sei».